Vincenzo Florio

Chi era Vincenzo Florio

FLORIO, Vincenzo. - Secondogenito di Ignazio senior e di Giovanna D'Ondes Trigona, nipote dell'omonimo Vincenzo creatore della ditta Florio, nacque a Palermo il 18 marzo 1883. Alla morte del padre, nel 1891, ereditò insieme col fratello Ignazio junior il grosso patrimonio di famiglia, che comprendeva, tra l'altro, imprese e partecipazioni azionarie. Poco portato verso gli affari, amò viaggiare e fu frequentatore abituale di Parigi, Nizza, Montecarlo e Cannes. Le imbarcazioni di lusso costituivano una delle sue passioni: in famiglia possedevano cinque yacht, tutti arredati con rara eleganza dal mobiliere V. Ducrot.

La passione più grande, quella dell'automobile, lo spinse ben presto a creare una vera scuderia di cui si occupava Felice Nazzaro, e ad organizzare corse rimaste famose. Per lui l'agonismo sportivo era fattore di civiltà e forma di eleganza che nulla avevano a che fare con la cruda competizione industriale. Dopo avere partecipato a varie gare in Italia e in Francia, nel 1904 giunse terzo al volante di una Mercedes alla Settimana automobilistica bresciana. Questa manifestazione gli suggerì l'idea, subito discussa con appassionati sportivi lombardi ed approvata con entusiasmo, di un challenge in sette prove, una all'anno. Nacque così la Coppa Florio.

La prima gara si svolse nell'estate 1905 sul circuito Brescia-Cremona-Mantova-Brescia, da ripetersi tre volte, per un totale di oltre cinquecento chilometri. Primo si classificò Giovan Battista Raggio, che pilotava un'Itala; per un guasto meccanico Florio non andò oltre il nono posto.

Nello stesso tempo Florio progettò di promuovere la conoscenza della Sicilia in Europa con varie iniziative, tra le quali, tuttavia, dovevano primeggiare le attività agonistiche. All'interno di questo progetto diede vita ad una competizione per auto veloci analoga a quella di Brescia, ma con un percorso assai più severo. La scelta cadde sul circuito delle Madonie di(km 148,823) che, partendo da : Contrada Pistavecchia (Buonfornello-Campofelice di Roccella), toccava Cerda , Caltavuturo, Castellana , Petralia Sottana , Petralia Soprana , Geraci , Castelbuono , Isnello , Collesano e Campofelice di Roccella .Florio mise in palio premi in danaro e una targa d'oro da assegnare al vincitore, la Targa Florio.

Il 6 maggio 1906 la manifestazione ebbe il suo battesimo con undici concorrenti. Vinse Alessandro Cagno, su Itala. La targa venne modellata da René Lalique e consegnata da Franca Florio, la bellissima moglie di Ignazio Florio, protagonista di tutti gli appuntamenti del bel mondo palermitano.

La gara si impose all'attenzione di tecnici e intenditori; nella seconda edizione (aprile 1907) i corridori salirono a cinquanta. La Targa, che venne dichiarata valida per il piccolo Campionato del Mondo, si affermò, inoltre, come appuntamento mondano da non mancare. Artisti di grido, come Charpentier e Bistolfi, furono incaricati di coniare medaglie. Nacque anche una rivista, Rapiditas, che si proponeva di esaltare, con riproduzioni grafiche e fotografiche della corsa, il mito dell'automobile e il carattere tipico della vita moderna, la velocità, perfettamente avvertito dal F. in anticipo rispetto ai tempi. Tra i collaboratori si distinguevano illustratori come M. Dudovich, A. Terzi e D. Cambellotti.

Nel 1907 il F. diede il via alla seconda prova della competizione bresciana, che però perse via via d'importanza: la prima edizione si concluderà nel 1925 trasferita sul circuito della Madonie.

Il F. ormai dedicava le cure maggiori alla Targa. In certi anni la partecipazione raggiunse tali livelli che, per potere ospitare tutti i convenuti, si dovette costruire un piccolo villaggio a Cerda detto "Floriopoli". Dal 1912 al 1914 il F. sostituì all'originario percorso il giro della Sicilia, una corsa massacrante di 1.000 chilometri. Quindi tornò al vecchio circuito ridotto dapprima a 108 e in seguito a 72 chilometri, lungo il quale, con la parentesi degli anni 1948-1950, si continuò a svolgere definitivamente la gara.

Il F. creò anche corse automobilistiche per piccola cilindrata, per scafi a motore con circuimnavigazione della Sicilia (la Perla del Mediterraneo) e molte altre manifestazioni: ippiche, motociclistiche e aviatorie. Dal lato industriale, fondò con il fratello una società per la costruzione di autovetture, che però non iniziò mai l'attività. In compenso, dopo il 1910, portarono il marchio Florio alcune auto costruite dalle officine Beccaria di Torino.

Nel 1913 il F. fondò l'Automobile Club di Sicilia, di cui rimase a lungo presidente, e si adoperò per la riuscita delle Primavere siciliane, delle Feste dei fiori e di consimili manifestazioni. In seguito ricoprì la carica di presidente della commissione sportiva automobilistica italiana. Durante la prima guerra mondiale, si era arruolato volontario automobilista, e aveva presentato un progetto di autocarro cingolato per il trasporto di armi e munizioni in zone di montagna.

Florio morì ad Épernay, nella Francia nordorientale, in casa della seconda moglie, il 6 gennaio 1959.

Fonte:Treccani - di Simone Candela - Dizionario Biografico degli Italiani

Ricordo di Vincenzo Florio

Sono passati più di trent'anni da quando incontrai, per la prima volta, davvero, Vincenzo Florio. Fino ad allora lo conoscevo solo di nome, come migliaia e migliaia di appassionati che amano la Targa. A presentarmelo compiutamente fu Silvana Paladino che, in riva al mare dell'Arenella, curava il mantenimento dell'ultima splendida roccaforte di un impero invidiabile e sconfinato. Le aveva parlato di me un professore universitario studioso del settore col quale avrei, negli anni, spesso contrastato fino al battibecco anche sulla scorta di quei documenti che mi accingevo a consultare. E' un giovane medico, amante dei Florio. Dice che vuole scrivere un libro. Vedi cosa puoi fargli vedere. Silvana era una donna sveglia e intelligente. Ci mise poco a capire che come tutti i medici che si rispettino anch'io avevo una bella malattia cronica di cui non ci curiamo. La mia si chiamava macchine da corsa. Ma non ero lì per questa.

Io volevo conoscere l'uomo, il Vincenzo Florio finalmente uscito dall'ambito ristretto in cui si era soliti rinchiuderlo quando lo si voleva descrivere. Io volevo conoscere la persona, il suo mondo i suoi amici oltre la corsa di automobili. Silvana lo capì, le si illuminarono gli occhi e mi condusse in un giro lungo ed emozionante all'interno dell'ultima dimora di don Vincenzo. Nei caldi muri di quella casa c'era ancora profumo di Belle Époque, l'aria respirata a lungo dal più giovane dei Florio. Gli arredi, gli scaffali, gli oggetti parlavano di lui e della sua famiglia sin da quando era solo aromateria ai Materassai. Le immagini dei designer fino ad allora viste su Rapiditas potevo ammirale ora alle pareti incorniciate da Basile o da Ducrot nella posizione da lui voluta. Non voglio pensare che in quell'atmosfera magica uno spirito guidasse nella ricerca delle carte la mano di Silvana, ma il risultato fu sorprendente. Quelle carte parlavano. Album pieni zeppi di foto autografate, lettere, inviti, ragionamenti e appunti infiniti, interminabili. Un universo percorso in tre ore in cui la stessa sequenza con cui mi veniva presentato sembrava rispondere ad una regia nascosta e insperata, di quelle che fanno luce davvero. Il mio Casa Florio, dove guardo ai personaggi più che alle imprese economiche, nacque lì, molti anni prima che in tipografia, nel fissare i connotati di un uomo morto un quarto di secolo prima e che scoprivo ancora vivo e vegeto non solo nel ricordo di chi lo aveva amato. I suoi scritti parlavano di un gusto, di un carattere preciso: tutto riconduceva alla sua vita. E la sua vita ruotava attorno allo sport, sin da ragazzo. Le gare con le prime biciclette "da corsa" con gli amici, le sfide organizzate per i rampolli sgambettanti delle famiglie nobili e borghesi in visita all'Olivuzza, tra i viali del parco mettendo in palio matite indelebili, distintivi di latta o coccarde tricolori.

Ricordi del primo triciclo a motore, di chauffeur, di Felice Nazzaro, delle Padova - Bovolenta e del Rignano, di nobili pionieri, degli hangar tra i più invidiati d'Europa dove custodire le vetture sue e del fratello, comprate sempre a coppia per non fare disparità, per non far pesare a Vincenzo l'esser fuori dagli "affari di famiglia", quelli grossi, quelli che conducevano lentamente al baratro degli anni prossimi. Ad ogni pagina titoli e sottotitoli alle foto, e poi appunti, dolci o inquietanti come le note amare ai quattro giorni passati in via Tasso. E poi fiori, in serti e corone, dovunque, nelle lettere, negli inviti di gala, nei proclami ai sindaci, negli inviti alla mobilitazione delle municipalità per il Giro di Sicilia, nei menù delle feste, nelle affiche delle sue coppe a Brescia, nelle movenze Liberty delle rarissime copie della rivista Novissima sulle quali plasmerà la sua Rapiditas. Poi una coltre di referti statistici delle battute di caccia alla Conigliera e, ancora, di competizioni podistiche o pugilistiche al campo Filippo Parlatore, le "tirate" di scherma al campo grande, il tiro a segno allo stand di famiglia, o le sfide sfiancanti con gli amici di sempre al biliardo della casina ai colli dove si annideranno, di lì a poco, i dolori più atroci, come la morte della nipotina prediletta. Come nel meraviglioso villino del Basile, costruito apposta per lui, dove perderà per colpa del colera la sua prima moglie, dove passerà notti insonni nel suo ricordo e nel lungo incubo di una prigionia difficile da cancellare. Ma era lo sport il suo antidoto alla vita che scorreva contraria. Anche in scritti insospettabili un occhio attento trova traccia che porta ad un evento sportivo a lui intestato. Le riunioni del Comitato Panormitan sono occupate quasi totalmente dal suo entusiasmante intuito, lo stesso che lo porta a fondare l'Automomobil Club Siciliano, a registrare contatti altisonanti per le sempre più belle edizioni della sua Targa. Ecco l'uomo che si appalesava dalle carte ingiallite scorse dalla voglia di sapere. Ecco l'uomo che mi si presentava, totalmente diverso da quello a mala pena sfiorato dai sapienti di allora. Un uomo capace di piangere e ridere, di soffrire in silenzio, di gioire per la vittoria di un italiano alla sua corsa o di consolare la moglie, sebbene ghiacciato dalle paura, nei giorni bui del ferro nazista.

Un uomo che intesseva relazioni con mezzo mondo (quello che contava), che poteva permettersi di omologare l'amicizia di un Enzo Ferrari, di un Tazio Nuvolari, di un Italo Balbo, di un principe Umberto, di un Ettore Bugatti o di un Ferdinand Porsche a quelle dei locali, semisconosciuti ai più, compagni di viaggio o di avventure organizzative, o di piloti naif che non sapevano spendere meglio i loro soldi se non partecipando al Mito intramontabile che il Cavaliere stesso aveva creato dal nulla e tra il nulla. Gli uni e gli altri lo rispettavano, anzi, lo veneravano allo stesso modo. E la sua autorevolezza rafforzata negli anni di Monza rimase tale e quale a lungo: ne sanno qualcosa i vari Neubauer, Gianni Lancia o i maggiorenti della Federazione Internazionale dello Sport Automobile quando coronarono di titolarità mondiale la sua corsa. La sua corsa era già storia dello sport e lui lo rappresentava in pieno. Ma non sopravvisse al lungo, almeno nel corpo. Nei suoi ultimi contatti, scritti e verbali emerge, il senso di incompiuto, di rammarico, il sentore che la sua creatura è lontana dall'arrivare al capolinea, anche se non è più la stessa corsa di un tempo. Eppure intravede margini di crescita, ne richiama la difesa e la continuità, ne parla dettando note e indirizzi ai suoi amici perché sa che se lo sono davvero lo saranno anche della Targa, la sua ragione di vita. Loro la difenderanno nell'essenza e nei principi sportivi che erano stati i suoi. Non solo quelli di un fondatore ma di chi ci ha messo l'anima per farla crescere con l'ammirazione del mondo intero. Ecco il Vincenzo Florio che ho conosciuto. Un uomo orgoglioso dl suo passato e con lo sguardo orientato al futuro, come sempre era stato, sin da giovane. Un uomo intelligente che guardava con fiducia a chi amava la Targa Florio, come fosse sua figlia, perché alla sopravvivenza di questa legava il ricordo di sé nel tempo. Perché non si dimentica un uomo che vive ancora grazie a quel che ha fatto.

Salvatore Requirez

Ringraziamo il Dottor Salvatore Requirez

La vittoria di Snipe ...... 1912

L'inglese Snipe, che vinse questo primo giro di Sicilia su una Scat italiana impiegando a effettuare i 1000 chilometri ore 24,37 alla media oraria di Km. 42,648, giunto a Sciacca era talmente stanco da doversi fermare per dormire due ore, ed il meccanico dovette tirarlo per i piedi. Proseguì ed arrivò primo.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

Il...mio giro del 1912

Nel '12 io correvo con Guido Airoldi; avevamo una Mercedes 60 HP. a 4 posti. Con noi c'era Clemente Ravetto e Nino Sofia; avevamo stabilito che io dovevo condurre da Palermo a Messina. Poi Guido da Messina a Siracusa. Ma essendo andati benissimo sino a Messina, Guido volle che io proseguissi. Io mi lasciai erroneamente persuadere, arrivati a Mililli tra Messina e Catania per uno strano effetto di luci non mi accorsi di uno di quei cunettoni che oggi non esistono più, il quale traversava lo strada. Camminavamo sui binari del tram ed io non ebbi il tempo di spostarmi a sinistra e continuai diritto sulle rotaie che per oltrepassare la cunetta non poggiavamo sul terreno ma passavamo per aria sostenute da puntelli. Potete pensare quello che accadde. Le ruote anteriori entrarono nel fosso e l'assale urtò con il bordo della cunetta. Guido, dando col piede quel colpo di freno immaginario che danno in simili circostanze tutti i guidatori che non tengono il volante sfondò la tavoletta su cui puntava i piedi; Sofia volò via dal suo sedile, passò sulla mia testa e rimase sul cofano in mezzo ai fari, tagliandosi il naso. Io, urtato violentemente da Sofia nel suo volo, diedi una gran testata sul volante. Il solo Ravetto piccolo e tarchiato rimase aggrappato al suo posto. Dovemmo la nostra salvezza alla solidità della Mercedes che io mi affrettai a spedire da Mililli stesso alla fabbrica a Stuttgard e che mi fu restituita come nuova.

Al caro Sofia un mese dopo l'accaduto, mentre si pettinava, scappò di mano il pettine che gli cadde sul naso riaprendogli la ferita. Fu un vero peccato quell'incidente perché quella Targa potevamo vincerla davvero Guido ed io.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

L'anno che vinse Ciuppa

Un'altra occasione mi scappò. Fu l'anno 1909 vinse Ciuppa sulle Madonie. Io arrivai secondo col distacco di un solo minuto. Nei pressi di Castelbuono mi ero fermato per spremere - come dicono gli inglesi - il limone. Si vede che la Targa non doveva tornare neanche per una volta al donatore. Ma se a me non fu dato ottenere l'ambito trofeo, è comprensibile il mio vivo desiderio che mio nipote Raimondo, nel quale vedo il continuatore della mia passione sportiva, possa ottenere quella vittoria che a me due volte sfug­gì e mi auguro che egli si prepari sempre molto seriamente mettendo tutti gli atouts dal suo lato e che il successo coroni il suo lavoro ed il suo entusiasmo anche nel campo organizzativo.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

Ricordi del 1912 e 1913

Cercherò di ricordare e raccontare alla nuova generazione di giovani sportivi ed attivi organizzatori qualche aneddoto rifere­ntesi al primo ed al secondo Giro di Sicilia per la Targa Florio 1912 e 1913.

In quell'epoca il percorso del giro costituiva una assoluta novità; nessuna altra corsa era stata mai effettuata sopra un circuito di 1000 Km e l'organizzazione, grazie alla buona volontà di tutti, alla educazione ed alla com­prensione dei buoni siciliani, riuscì facile e perfetta. Dal 1906 , 1° anno della Targa Florio sulle Madonie al 1913 anno di fondazione dell'Auto­mobile Club di Sicilia, funzionò per l'organiz­zazione di tutte le manifestazioni sportive il Comitato Panormitan, fondato da un gruppo di volenterosi sportivi e dal quale fui nominato presidente. I due giri dei quali parlo furono organiz­zati con pochissimi mezzi. Lettere ai Sindaci, formazioni di piccoli comitati, in ogni paese traversato, incaricati per le segnalazioni stradali ai concorrenti, di giorno con striscioni e ban­diere. di notte con fanali improvvisati di carta e torce a vento. Le strade rimasero quelle che erano, polverose con pietrisco e relative ingar­rature. Mi ricordo che quando Ernesto Ceirano venne a prendere conoscenza dello stato delle strade 6 mesi prima del giro mi disse:
<< Verrò giù con una macchina che cascando da un terzo piano non si sfasci. >> Eppure tutto funzionò alla perfezione senza il minimo incidente. Non pensai mai allora che assumevo l'alta carica di organizzatore, direttore di corsa e di segretario della manifestazione; tutto si faceva allora alla buona nella nostra famiglia sportiva con la massima semplicità. Per la propaganda in Italia collaborarono: la Gazzetta dello Sport, la Stampa di Torino, il Corriere della Sera, il Giornale d'Italia, il Mattino di Napoli e per l'estero l'Auto di Parigi; fotografo ufficiale era Meurisse che da Parigi diramava le fotografie della sua Agense Rapid a tutti i giornali del mondo. In questi miei ricordi mi rivolgo in modo particolare a quel bel tipo del mio caro nipote Raimondo così pieno di vitalità, esuberante, la­tore appassionato e tenace, intraprendente, infaticabile, qualche volta agitato ma sempre per far meglio per riuscire nel suo intento e ve­ramente ammirevole per il suo senso organizzativo. A 36 anni di distanza sono rimasti pur­troppo in pochi coloro che ricordano la partenza del Primo Giro di Sicilia.

II « via » per lo svolgimento dei 1000 chilometri del nostro magnifico ed incompara­bile percorso veniva dato nel cortile del palazzo Villarosa reso allegro dal rombo di parecchie decine di macchine in mezzo alla cornice di verde di alberi magnifici secolari oggi disgra­ziatamente abbattuti. Rombano i motori; i classici Cronometristi Lucio Tasca e Girolamo Petrulla sono pronti. Niente parabrezza, niente parafanghi sulle vet­ture, solo qualche esemplare di parafango in latta o tela. Invenzione questa che doveva ap­portare una infinita serie di guai a chi l'aveva adottata.

Vincenzo Florio

(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

1913 .... Il mio amico Marsaglia

Nel giro del 1913 ad Agrigento le mac­chine dovevano fare una sosta di 5 ore per neutralizzazione. Io non correvo. Il mio amico Marsaglia, allora proprietario dell'Aquila Ita­liana, correva con una macchina che aveva espressamente costruito. Arrivato ad Agrigento era molto preoccupato perché doveva ripartire alle due del mattino ed aveva i fari guasti (ad acetilene a quel tempo). Siccome quelli della mia macchina da turismo erano identici ai suoi prendemmo gli opportuni accordi per potere effettuare il cambio a un punto prestabilito dopo al traguardo di partenza. Il mio meccanico avrebbe aiutato il suo nel cambio.

Ma Marsaglia, uomo imprudente, nella della corsa non si fermò contando sull'aiuto della ­luna. Camminò così nel buio della not­te. Finì secondo dopo Nazzaro e perdette la corsa per non aver approfittato del mio aiuto.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959

Enzo Ferrari .....e la sua strana Targa !!!!

Chiedo l'avallo di Enzo Ferrari per introdurre queste righe a quell'abbozzo di ritratto che il costume mi suggerisce destinato a Vincenzo Florio. È la prima Targa che il costruttore vocato, ha vent'anni, abbia osato affrontare. « Stavo per raggiungere Campofelice — racconta l'uomo di Maranello — seguito abbastanza da vicino da altre due macchine, quando tre carabinieri piazzati a gambe larghe nel mezzo della strada ci fecero segno di fermarci. Non si dice mai di no ai carabinieri e così, con deferenza, chiedemmo la ragione della sosta forzata. « Nessun incidente, nessun pericolo, ci risposero i militi della Benemerita, soltanto dovete, avere pazienza, il Presidente deve finire il suo discorso ». Pochi metri più avanti, dopo una curva, la sede stradale formicolava di gente e la via era intasata fino alla piazza centrale del paese. I siciliani erano là ad applaudire Vittorio Emanuele Orlando, presidente della Vittoria. Noi abbozzammo alcune timide proteste assolutamente vane. Il discorso fu abbastanza lungo e quando finì non ci fu data ancora via libera. Ci fu soltanto concesso dopo accorate insistenze di accodare le nostre' macchine al corteo presidenziale. Avanzammo così per qualche chilometro insieme alla nera berlina De Dion Bouton e fummo liberi di precipitarci verso il traguardo soltanto quando la macchina del presidente si avviò per una via laterale. All'arrivo, cronometristi e spettatori erano già scomparsi con l'ultimo treno per Palermo. Un carabiniere, munito di sveglia, registrava paziente i tempi dei ritardatori arrotondando al minuto. Il lunedì seguente mi presentai a Don Vincenzino Florio. Con la sua scanzonata autorità mi disse: « Di che ti lamenti? Eri in ritardo, non hai rischiato nulla e ti facciamo persino il regalo di infilarti nella classifica! ». Mi venne assegnato il nono posto; tutto sommato, un piccolo successo. Don Vincenzino Florio! Per me un maestro di sport; poi divenne un amico; ora resta nella mia memoria al piano superiore, dove vivono i pionieri ».

Severio Boschi

L'insuccesso della corsa !

Debbo lealmente riconoscere che l'insuccesso di questa 36^ Targa Florio è dovuta alla mia testardaggine ed alla mia volontà di affermare un principio sano e veramente sportivo. Può darsi che sbagli, ma anche se dovessi effettivamente sbagliare, non me ne rammaricherei perché se avessi voluto seguire l'andamento moderno, instaurato dai miei giovani colleghi e seguito anche dagli anziani organizzatori, certamente avrei alla partenza della corsa un numero maggiore di concorrenti e parecchi nomi di assi del volante, dei quali diversi anziani che vivono di un glorioso passato ma che probabilmente sui 576 Km degli otto giri delle Madonie non sarebbero stati, forse, in grado di resistere al grande logorio di energie che impone la corsa ed avrebbero dovuto ripartire la gloria di una affermazione con qualche giovane oscuro collaboratore. La mia corsa non cerca compromessi, essa, così come l'ho sempre concepita, e intesa, è ispirata alla ricerca della rivelazione della migliore macchina e del più valoroso corridore capace di vincerla da solo e con i propri mezzi fisici.

In trentacinque edizioni, e particolarmente nella venticinquesima sulle Madonie, il vincitore è sempre stato uno, senza l'ausilio di collabo­ratori, ed è proprio in questa prova di resistenza che si sono rivelati i veri grandi assi.

Lo scorso anno, dopo tanti anni di assenza della corsa dalle strade delle Madonie, Franco Cortese si confermò grande campione compiendo da solo il percorso da cima a fondo, malgrado i suoi avversari si fossero alternati in varie riprese al volante delle macchine che lo seguivano in classifica. Se ho sbagliato nel non concedere ingaggi, tanto peggio per me, però fino a quando la «Targa» sarà da me organizzata ed avrò il conforto della solidarietà piena del mio socio Giacomo Tagliavia, che fortemente collabora con me per il successo della corsa, io desidero che il vincitore sia uno sportivo puro, o isolato o che appartenga ad una casa che si renda conto che la «Targa Florio si corre, si vince o si perde compiendo quei sacrifici che essa merita e che si addicono per la sua grande fama e per la sua vasta risonanza internazionale.

Vincenzo Florio

(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

«Cavaliere, che ci scrivo alla Ferrari ?»

Tu scrivici quello che vuoi, l'importante è che mi manda tre macchine.

Per me, giovanotto che credeva di sapere tutto dello sport, Ferrari era il «Drago di Maranello»; non potevo mettere giù a casaccio quattro righe per chiedere al creatore della Casa che vinceva sulle piste di tutto il mondo tre preziosi (e costosissimi) «gioielli dell'industria motoristica italiana». Proprio mi sembrava irriverente.Vincenzo Florio mi guardava stranito: aveva grande stima dell'«Ingegnere» ma in fondo lo giudicava «uno che non ha mai vinto la Targa».

«Avanti, scrivici !». Ma a quella lettera proprio non riuscii a dar forma, e tante altre non ne scrissi. Come potevo chiedere, per esempio, ad aziende che hanno miliardi di fatturato, pubblicità senza nemmeno specificare dove, come e in che spazio l'avremmo piazzata? Insomma fu un vero fallimento e mi venne in uggia quel polveroso ufficietto (due stanze in casa Florio, sepolte da quadri e da valanghe di ricordi) che aveva alla porta l'ampollosa etichetta di «Comitato Organizzatore». Mancavano sì e no venti giorni alla corsa, mi chiedevo chi mai avrebbe potuto parteciparci. Mi sembravano tutti degli inguaribili ottimisti: lui, quel gran vecchio in bretelle e pantofole, e la sua piccola corte, Corrado Dirkes, Vincenzo Gargotta, l'avv. Marasà e il prof. Palmeri.

Mi accorsi d'aver torto quando un giorno accompagnai il «Cavaliere» alla Regione. Mi aspettavo indifferenti uscieri alle porte. E invece fu tutto un sussiegoso «Baciamo le mani, Cavaliere». E lui passava, scamiciato e coi sandali, di stanza in stanza sino allo studio del Presidente. «Domani, voglio le strade riparate». «Faremo il possibile, Cavaliere». Uscii impettito. «Diavolo d'un uomo - pensavo - che abbaglio che ho preso». Ma mi affascinò del tutto più tardi. Quando, smontando dalla carrozzella, il cocchiere gli chiese una cifra esosa. «Amo a campare tutti, signurì». «Sì - gli rispose - ma tu non hai un nonno così»: e gli indicò quell'lgnazio Florio di marmo che troneggia sulla piazza, il fondatore della famiglia-dinastia che anticipò a Palermo la «rivoluzione industriale». «Mi paghi un'altra volta» - fece, piccolo, 'u' gnuri'. Così finalmente capii il fascino di don Vincenzo Florio. E capii anche perchè alla corsa, pochi giorni dopo, parteciparono cento auto in una babele di lingue, di motori e di folla (mezzo milione di persone). Era il 1955, l'anno della fantastica «cavalcata» delle Mercedes. Ma io, di quell'edizione leggendaria, non ne trassi la benchè minima porzione di vanto: me n'ero andato dall'organizzazione, sfiduciato e pentito, prima che il Cavaliere mi dicesse che ero un buono a nulla, lui che a ventidue anni aveva «inventato» quella corsa che è ancora oggi ilfiore all'occhiello della Sicilia più evoluta.

Da quell'anno non mancai mai più alla Targa. Prima ne avevo viste poche, sbiadite edizioni: una credo nel 1939 (devo guardare il retro della foto che mi vede attaccato ai pantaloni di papà, in una tribuna di legno messa sù lungo i viali della Favorita); le altre, quando la Targa era abbinata al Giro di Sicilia, attratto dalla popolarità soprattutto calcistica del barone La Motta, e del principe Raimondo Lanza. Ma a Cerda, laggiù tra le Madonie, era proprio un'altra cosa. Tutto è spettacolo: la levataccia mattutina, l'acre odore del carburante che si spande tra i covoni di grano, i contadini con la coppola del giorno di festa al bivio di Scillato, lo sparo dei mortaretti ad ogni «passaggio» alla fine del rettilineo di Buonfornello, le montagne di arancine e l'orda delle formiche.

E poi i «bolidi, i piloti, le loro tute, le loro magnifiche donne: un'orgia di colori e di sensazioni». Crescevo si può dire una «Targa» alla volta, come ogni palermitano. Ed è naturale che mi siano più care, quelle della giovinezza: la seconda vittoria di Maglioli nel 1956, Gendebien che si presenta con la testa fasciata (al ritorno da Cerda, dove si era imposto con la Ferrari in coppia con Musso, aveva capottato con una 500). Poi l'altoparlante non chiamò più «Tubolino, si presenti in tribuna, dal Cavaliere». Don Vincenzo se n'era andato per sempre ad Epernay, in una bella morte tra filari di «champagne». Ma la sua creatura restava viva con Cecé Paladino a succedere al grande nonno, a dare del «tu» in ogni idioma a costruttori e a piloti, in un tripudio di felice disorganizzazione.

L' «armata - Porsche» trionfava nel 1959; poi i furenti duelli con la Ferrari; «il giallo della patente» di Vaccarella, nel 1963, quando Bonnier e Abate sgominarono sette Ferrari; l'ecatombe di macchine, in un giorno di tregenda del 1964 che vide sbucare primo al traguardo il barone Pucci e infine il «ritorno di Maranello» e il primo successo del «preside volante» in coppia con Bandini. Il resto dei più vividi ricordi li lasciamo ai più giovani.

Ora l'organizzazione, affidata all' Automobile Club, è un congegno ben lubrificato. Eppure la «novità» mi imbarazzò tanto che, chiamato all'ufficio stampa, declinai l'invito. Come dire che, accettando, avrei tradito il muto rimprovero di Don Vincenzo ? E così commisi anche l'imperdonabile «gaffe» di deludere il povero, caro, dott. D'Anna, uno degli uomini che ha contribuito a rendere «favolosa» la Targa. «Favolosa», soltanto?

Dici «Targa» e in qualunque parte del mondo hai un argomento di conversazione che ti rende orgoglioso di essere siciliano. Sarà retorica, ma per chi non ha fatto l'esperienza di emigrare. Per me no: è realtà, intrisa di struggente nostalgia. E' una fitta al cuore che provo, ogni anno, quando laggiù è primavera inoltrata e qui a Torino è ancora la stagione delle piogge. Scendi nelle strade e avverti nelle officine tutta un'animazione insolita. Adesso mi sono abituato a non chiedere più perchè. Un giorno mi rivolsi a un certo Fusina (che ha un florido negozio di accessori, una miriade di altre attività e lascia tutto in asso per essere sempre presente con una vettura di piccola cilindrata) e ne ebbi una risposta: «Ma non sa che domenica si corre la Targa? ».

Pensavo che quest'anno, con tutto il suo daffare, vi rinunziasse. L'ho abbordato proprio ieri: «Ci va anche questa volta, che non è più prova di campionato mondiale?». E lui, quasi seccato: «che mi importa? Io alla Targa ci vado perchè la amo, deve essermi entrata nel sangue». Me lo diceva Don Vincenzo: «Scrivici, quello che vuoi. A me basta fare un fischio e vengono tutti a Cerda, e senza condizioni».

Non sapeva però (o forse sì ?) che lì a due passi sarebbe venuta anche la Fiat a impiantare uno stabilimento, ad occupare centinaia di siciliani, a fare dell'anello della Targa una valida pista di collaudo.

Giuseppe Dragotto

(tratto dal "Numero Unico" della Targa Florio del 1974)

Chi era Florio mi chiede?

« Io sono forse l'amico dal punto di vista sportivo meno adatto a ricordare Vincenzo Florio, questo indimenticabile personaggio del mio tempo. Conobbi Florio quand'ero ancora giovanissimo. Passai con lui tutta l'infanzia, ne combinammo, veramente tante. Molti particolari di questa sentita amicizia non li ricordo più, ma alcuni mi sono rimasti bene in mente. Poi lasciai Palermo e con Palermo lasciai Vincenzo Florio. Mi trasferii a Messina, poi a Roma e per molti anni non vidi più il mio caro amico. Credevo di averlo perduto. Ma ritornato a Palermo sono andato a trovarlo nella sua sontuosa villa dell'Arenella. Da quel momento il nostro legame di­venne più saldo, la nostra amicizia più intima. Non credevo assolutamente di ritrovare un amico che ritenevo perduto. Invece assieme divennimo sempre più uniti. La sua morte poi mi ha profondamente addolorato. Chi era Florio mi chiede? Tutti ormai sanno chi era Florio. Quale era il suo spirito, la sua personalità. Tutti conoscono bene le sue iniziative, le sue opere, il valore di quest'uomo. A me non resta che confermare in pieno quanto è stato detto. Tutto insomma su questo classico e straordinario personaggio del nostro secolo è stato detto, ma forse qualche episodio del quale sono stato anch'io protagonista è inedito, non è mai stato raccontato.Ed eccomi brevemente:
Alla periferia di Messina avevo delle proprietà e da li un anno mi capitò di assistere al passaggio dei concorrenti partecipanti al Giro di Sicilia. Nelle vicinanze della mia tenuta ci fu uno dei concorrenti che per far più presto, per marciare più veloce aveva escogitato di evitare la polverosa strada ed aveva preferito salire per un certo tratto, abbastanza lungo, sulle linee ferrate riservate ai tram.
Questo concorrente fece in modo che le ruote della sua vettura filassero dritte sulle rotaie. Ad un tratto però vidi la vettura saltare in aria e cadere in un fossato. Cosa era successo? La strada sulla quale poggiavano le rotaie per un certo tratto per una cunetta, non esisteva e le rotaie poggiavano su una specie di piccolo ponticello, piccolo quanto la larghezza delle rotaie. Quel concorrente era Vincenzo Florio. Ma per fortuna lui e il suo compagno restarono incolumi e tutto fu risolto con qualche cerotto e con la vettura completamente distrutta. Vincenzo Florio finì lì quel Giro di Sicilia e assieme restammo ad osservare gli altri concorrenti diretti a Palermo verso la conclusione della corsa. Ne pensava tante quel Florio!».

Filippo Cianciafara

(dal Numero Unico della 51^ Edizione Automobile Club Palermo)

La Gara che e'unica al mondo ..di Giovanni Canestrini

Se la prima impressione è quella che conta, io dovrei conservare della Targa Florio un ricordo sgradevole, come di mal di mare. Poichè era autentico mal di mare quel malessere che mi aveva assalito verso la fine dei lunghi 108 chilometri del Circuito delle Madonie, la prima volta che li percorsi, dopo aver infilato, una dopo l'altra, tutte quelle curve; quante non so dirvi, benchè mi fossi prefisso di, contarle. Il caso non era nuovo: lo stesso Bordino aveva dovuto una volta farsi sostituire durante la cor­sa; lo stesso Werner, all'arrivo della sua gara vittoriosa,aveva dovuto sottrarsi temporaneamente all'entusiasmo dei suoi ammiratori per riconquistare il senso della terra ferma. Perchè il Circuito delle Madonie non è un percorso stradale come tanti altri sia pure celebri per le loro difficoltà è una burrasca di curve che dura per oltre cento chilometri. A percorrerlo in corsa, alle medie che oggi si raggiungono, si ha più l'impressione di trovarsi su dì un motoscafo alle prese con le più capricciose onde marine, che non su di una macchina sta­bilmente piazzata su quattro ruote. Avete mai provato a contare le onde del mare? Compito piuttosto arduo; no? Ebbene lo stesso sarebbe volere contare le curve del Circuito delle Madonie. C'è chi dice che sono 1500; chi dice che sono più di 2000; chi non meno di 5000.

Io non posso dirvelo per via del mio mal di mare; ma è certo che sono tante, tante,e l'una diversa dall'altra, e l'una all'altra vicinissima, sì che giustifico l'impressione ella burrasca di cur­ve in cui venni a trovarmi in quell'indimenticabile primo giro del Circuito, caro a Vincenzo Florio, non per nulla armatore di navi e di organizzazioni; amatore e campione degli sports meccanici in terra ed in acqua. Con più calma rifeci quelle strade, ed annualmente da cinque anni vi ritorno, ed in me mo­desto spettatore aumenta l'ammirazione per questa gara e sempre più capisco il fascino che essa esercita sugli appassionati della guida. E' il fascino della difficoltà e del rischio. Il vero automobilista non ama le strade facili, come il vero marinaio non ama il mare tranquillo. Il guidatore che ha portato a termine non importa se primo od ultimo una Targa Florio deve provare lo stesso orgoglio del nocchiero che ha condotto in porto la nave attraverso la tempesta. Perchè per potere fare una Targa Florio non bastano qualità comuni di guidatore, occorre quella che si dice classe, ossia quel complesso i doti che fanno del guidatore una artista della guida. Ed anche questo non basta. Campioni di grido, gente che ha fatto migliaia e migliaia di chilo­metri in corsa e che conta le vittorie a decine in gare di ogni genere, quando corre la Targa o, in­comincia la preparazione parecchie settimane, e magari qualche mese, prima. Le difficoltà della Targa Florio non sono una leggenda. Se lo fossero, la leggenda sarebbe caduta da un pezzo, e invece la gara siciliana rimane la corsa che consacra il campione, e quando si dice, in Italia ed all'estero: il tale ha fatto la Targa è come dire:« giù il capello, è un campione sul serio ».E non per nulla quando si parla delle difficoltà di un percorso s'usa dire: « è una piccola Targa Florio »; se poi lo senti dire all'estero come io tante volte l'intesi ti gonfi d'orgoglio perchè la Targa Florio è una sola ed è vanto dell'automobilismo italiano.

E come in Italia vengono da tutte le parti del mondo per ammirare le bellezze della nostra ter­ra, i capolavori della nostra arte, le vestigia della nostra civiltà millenaria, così in Italia s'ha da venire per vivere - come attore e come spettatore questa gara che non ha l'eguale. E quando un costruttore italiano o straniero che sia vuole dar lustro alla sua marca e garantire la bontà della sua produzione e delle sue vetture, non ha da scegliere che questa gara, la sola, che agli occhi del pubblico di tutto il mondo dia il responso che non si discute. Remota o recente, la consacrazione della Targa l'ebbero tutte le grandi marche europee. E' ormai ventidue anni che si corre la Targa e ne son passati degli uomini e delle macchine nelle me­morabili battaglie che si sono combattute nel nome del grande pioniere siciliano. Se tu ne rifai la storia è tutto l'automobilismo italiano che passa dinanzi ai tuoi occhi, come in una visione, con le sue manifestazioni liete o tristi, con i suoi campioni, con le sue conquiste. Ed al tuo cuore di italiano e di sportivo la Targa Florio appare allora non più come una comu­ne manifestazione di tecnica o di sport o di propaganda, ma come l'espressione più completa e più potente delle nostre conquiste in un campo che sembrava precluso a noi popolo di artisti, di poeti e di guerrieri. E Cerda, Polizzi, Campofelice, Caltavuturo risuonano al tuo orecchio come nomi di battaglia e di vittorie. Piccoli, grigi paesi sperduti sullo squallido altipiano delle Madonie, che hanno la loro storia e che ventidue anni or sono ebbero la ventura di salutare nella prima battaglia la prima vittoria italica che aveva nome « Itala ».

Giovanni Canestrini

Dal numero unico del 1966

Pino Fondi e Vincenzo Florio

Nel periodo dei primi anni Cinquanta quando, giovane apprendista, collaboravo al «Giornale di Sicilia» per gli sport motoristici, fre­quentavo spesso la sede dell'organizzazione della Targa Florio, al­lora concentrata in due stanze dell'abitazione di Vincenzo Florio al primo piano di via Principe Belmonte 33, a Palermo. Ricordo anco­ra lo studio del «Grand Monsieur»: estremamente semplice, con la vecchia scrivania di Ducrot, la libreria zeppa di testi sull'automobile, il caratteristico tagliacarte a forma di «kriss» malese come quelli im­mortalati dai romanzi di Emilio Salgari. In quella stanza, come nelle altre, il tempo sembrava non scorrere mai: tutto era sempre uguale e silenzioso. Eppure là, senza frastuoni e con serenità francescana, si organizzava la corsa più vecchia del mondo, compiendo sempre degli autentici miracoli. Spesso, anziché rivolgermi all'Ufficio Stampa, diretto dal buon Vin­cenzo Gargotta, per le notizie su iscrizioni di Case e piloti, preferivo «inquietare» direttamente il Commendatore, che la gente umile d'an­tico stampo chiamava sempre «u Cavaleri». Parlare con lui era ecci­tante: sapeva offrire con rara efficacia un'immagine viva del passato e del presente della Targa. La sua signorilità affascinava sempre chiunque l'avvicinasse. Lo conoscevo da quando ero piccolo, quan­do mio padre collaudatore e corridore, che lui chiamava «il tosca­naccio», veniva in Sicilia per le prove o le corse. Da adulto ebbi modo d'approfondirne la conoscenza. Per la verità, in quel periodo però, egli non fu molto tenero con me. Difatti, una volta pubblicai un articolo sul Giro aereo di Sicilia, ideato dal co­mandante Beppe Albanese, evidenziando che si trattava della prima gara aviatoria dell'isola; quando lui lo lesse, s'infuriò. Scrisse una lettera al direttore del «Giornale di Sicilia» rilevando che la prima ga­ra aviatoria in Sicilia era stata organizzata da lui tanti anni prima e sottolineando con ironia che l'estensore dell'articolo «incriminato» era «troppo giovane per sapere di certe cose... »

Devo ammettere che ci restai male, anche per la figuraccia nei con­fronti del mio direttore. A mente fredda, però, riconobbi d'essere stato superficiale. Per fare ammenda del mio errore, decisi allora di farmi ricevere personalmente da lui. Mi presentai umile e pentito come Enrico IV a Canossa. Florio ne fu sorpreso e fu molto gentile. «Quando uno della tua età ammette d'a­vere sbagliato, vuol dire che è un giovanotto a posto!», mi disse com­piaciuto. Lo ringraziai e, approfittando dell'occasione, per giustificare il «tor­mento» che gli avrei procurato in seguito con richieste di notizie sul passato delle sue manifestazioni, gli dissi che d'allora in poi mi sarei rivolto soltanto a lui per essere più preciso e documentato.

Passò del tempo e venne la primavera del 1956, quando si stava ap­prossimando la celebrazione del cinquantenario della Targa.
Non c'era occasione migliore per una rievocazione storica con un bel ser­vizio giornalistico. Perciò, mi rivolsi a lui. E Florio, cortese come sempre, mi ricevette nel primo pomeriggio di un giorno di maggio. Taccuino alla mano, gli chiesi subito di citarmi fatti, particolari ed episodi inediti sulla sua corsa. Lui rilevò che ar­gomenti ce n'erano a iosa, ma per taluni era meglio lasciar perdere. Incuriosito, insistetti per questi ultimi. Lui resistette per un po' e do­po cedette, imponendomi, però, una condizione capestro. «Ho mol­ta stima di te, Pinuzzo!», mi disse: «Però, dei giornalisti non mi fido, amici o nemici che siano. Sono sempre pronti a ricamare chissà cosa su ogni particolare. Sono disposto a rivelarti certi episodi sulla Tar­ga; di alcuni di loro, però, potrai scrivere soltanto qualche anno do­po la mia morte. Se mi prometti formalmente che terrai fede all'im­pegno, va bene... Altrimenti, come non detto!»

Ne fui molto stupito e rilevai che di anni ne aveva ancora tanti da vi­ vere e che non valeva pensare alla morte. «Lascia stare con queste fesserie! Alla mia età certe cose possono accadere da un momento al­l'altro. Non vedo motivo per cui non se ne debba discutere serena­mente. .. » A quel punto, mi convinsi che con lui era inutile insistere. Perciò, giurai che avrei tenuto fede all'impegno e che avrei rivelato alcuni episodi soltanto dopo la sua scomparsa. «Da uomo a uomo, eh?», insisté. «Da uomo a uomo!», confermai. Convinto della mia sincerità, prese dei fogli bianchi che erano sul ta­volo della scrivania e mi disse: «Su questi scriverai gli episodi che po­trai pubblicare subito e sul tuo taccuino quelli segreti per... dopo. D'accordo?» E cominciò a raccontare, fissando ogni tanto un angolo della came­ra. Mi raccontò fatti ed episodi a ruota libera. La sua lucidità era ec­cezionale. Io annotai e annotai sui fogli e sul taccuino. Non bastò un pomeriggio e ne seguirono altri. Alla fine ero eccitatissimo. Avevo raccolto tanto di quel materiale da montare due, tre volumi, e di quelli grossi, sulla Targa Florio. Scrissi un pezzo sul cinquantenario e relegai in soffitta il taccuino tentatore, dove restò per anni, dimenticato.

Nel 1959 Vincenzo Florio lasciò questo mondo rimpianto da tutti. L'anno successivo il buon Cecè Paladino, nipote del grande pionie­re, mi chiamò a far parte dell'Ufficio Stampa della Targa Florio as­sieme a Vincenzo Gargotta. Accettai con entusiasmo, ma non ebbi il coraggio di rispolverare il taccuino. Trascorsero molti anni e soltanto negli ultimi tempi l'ho tirato fuori, con attenzione quasi sacrale. Così ho preso spunto per la ricostruzio­ne di questa storia, una vera storia sulla Targa. Di episodi ce n'erano tanti, ma ho scelto quelli per me più significativi. Per gli altri si potrà pensare in futuro, magari; poiché, come diceva il Grand Monsieur, un volume non basta. In ogni caso, chiedo scusa per le eventuali omissioni. Come giustifi­cazione, mi appello al pensiero di quel Grande che soleva dire: «Gli errori sono inevitabili; l'importante, però, è cercare di farne il meno possibile. .. »

Quel nome .... Targa Florio .....

Qualche ora dopo trovo' la soluzione che cercava per il nome della corsa delle Madonie. Accadde che in Quai aux Fleurs nei pressi di Notre Dame, si attardasse in attesa di prendere una carrozza che lo portasse all'Opèra per assistere a un concerto di Ravel. Era in frac e con il bastone di malacca in mano. Si accosto' a uno dei lampioni del Quai che brillavano di vivida luce. Sul viale c'erano delle fioraie che, con i cesti in mano, offrivano ai passanti odorosi mazzolini di viole. Una di loro si avvicinò a lui offrendo il suo. Era giovane e dal viso pallido. I suoi occhi neri e profondi riflettevano l'immagine della tristezza. Portava sulle spalle uno scialle logoro e calzava scarpe consunte. Florio restò colpito e se ne impietosì. «Quanto costano tutti i mazzolini che avete nel cesto?» le disse. «Dieci soldi, Monsieur!»

«Bene!», esclamò Il Cavaliere, «Li compro tutti!...» Cavò di tasca alcuni franchi e glieli dette. Erano una piccola fortuna per la povera fioraia; lo guardò stupita, temendo che «Monsieur» avesse sbagliato. Ma Florio insistette che andava bene così. Allora, la fioraia cercò di consegnargli il cesto con le violette. Ma Il Cava­liere disse: «Tenetelo! Non saprei che farmene...» La fanciulla fu ancor più stupita ed ebbe l'impressione che quel Monsieur fosse una angelo in frac e cilindro. S'intenerì moltissimo. Frugò nel cesto e scelse uno dei mazzolini più belli. «Accettate almeno questo, Monsieur! Vi porterà fortuna.» Proprio in quel momento transitò sul viale un fiacre, nuovo e lucido di vernice. «Carrozza! Carrozza!», gridò Florio.

Il fiacre si arrestò accostandosi al lampione. Il Cavaliere vi montò e fu attratto da una targhetta di lucido ottone su cui era impresso il numero 24. Quella targhetta e quel numero gli ricordarono qualco­sa. Intanto, la fioraia insisteva: «Prendete questo mazzolino di viole! Vi porterà fortuna!... Prende­telo! ... » Alla fine, prima che il fiacre si muovesse, acconsentì, e afferrò il mazzolino ordinando al vetturino: «A l'Opéra!»

Mentre le ruote già battevano il selciato, Il Cavaliere riguardò quel­la targhetta: d'un tratto, la sua memoria s'illuminò di un lampo. Quell'oggetto gli ricordava la sua vittoria alla Padova-Bovolenta del 1903 quando con la Panhard batté Vincenzo Lancia alla guida di una Fiat. Riudì gli applausi della folla e rivide il conte Rignano mentre gli consegnava la «Targa Rignano» trofeo della corsa. Pen­sando a quella targa dorata ebbe un sussulto. << Già, ecco!....>> disse fra sé , << Una Targa !… Proprio una Targa! … Ecco quello che ci vuole alla mia nuova corsa!...Targa Florio! ….Ecco, Targa Florio … suona bene …. Suona bene!....E ricorderà della mia lontana vittoria!.....

La Leggendaria Targa Florio

A me non interessano né cariche né monumenti!

Il CSMS (Comitato Sportivo Motoristico Siciliano) che aveva dato la stura al Giro di Sicilia con in palio al Targa, non era vi­sto di buon occhio in certi ambienti nazionali. Inoltre, fra Lan­za di Trabia e la CSAI (Commissione Sportiva Automobilistica Ita­liana), non correva buon sangue. Visto come stavano le cose, a questo punto, Lanza di Trabia prese una coraggiosa decisione assie­me a Stefano La Motta e gli altri «neo-carbonari». E cioè quella di creare in Sicilia un'istituzione autonoma dalla CSAI e si interessas­se direttamente di tutti gli eventi dello sport automobilistico isola­no. Così, nel corso di una riunione, alla quale era presente anche Vincenzo Florio, invitato d'onore, nacque la CSAS (Commissione Sportiva Automobilistica Siciliana) alla quale era demandato il compito di prendere e assumere decisioni sull'organizzazione di manifestazioni in Sicilia. All'unanimità venne deciso di eleggere a Presidente Vincenzo Florio. Ma Il Cavaliere rinunciò cortesemente alla nomina lasciando l'incarico al nipote Raimondo.

«A me non interessano né cariche né monumenti! Mi interessa sol­tanto che venga organizzata la mia corsa e assicurato il suo avvenire secondo la formula con cui io l'ho creata...»

In realtà, come del resto lasciavano trasparire queste ultime parole, Il Cavaliere sognava sempre il ritorno della sua corsa alle Madonie. Se prima era stato molto scettico, ora, invece, riaccesosi in lui il so­pito entusiasmo con il rilancio del Giro di Sicilia, non lo era più. E in effetti stava già pensando a come risolvere il problema.

1947.... I "neo-carbonari"... lanciano il Giro di Sicilia ....

Nel 1947, ormai sessantenne e provato dalla guerra , il Cavaliere se ne stava in disparte nella sua Palermo.

A Palermo, in quel periodo, si ridestava il sopito amore per lo sport dei motori. Erano i veterani che avevano vissuto gli anni prebellici della Targa Florio a rinfuocarlo. Ma anche i giovani delle nuove leve si davano un gran da fare, forse con spirito goliardico, ma notevole talento organizzativo.
Amavano partecipare alle cor­se, così come organizzarle. Facevano parte attiva di questo gruppo il principe Raimondo Lanza di Trabia, il barone Stefano La Motta, il barone Luigi Bordonaro, il barone Antonio Pucci, il marchese Carletto Pottino, il barone Mimì Tramontana, i fratelli barone Ber­nardo e barone Mario Cammarata, il conte Giuseppe De Sarzana. Raimondo Lanza di Trabia era il nipote prediletto di Vincenzo Flo­rio. In comune con lo zio, Raimondo aveva uno spiccato spirito d'i­niziativa. Impetuoso e irruento non si fermava mai di fronte alle difficoltà. Anticonformista e spregiudicato non amava certe regole e per talune stravaganze si attirò non poche antipatie. In realtà, era un innamorato dello sport, dinamicissimo e generoso.

Stefano La Motta era meno impulsivo dell'inseparabile amico. In seguito ;diventò un vero mecenate dello sport e, con Lanza di Tra­bia, contribuì al ritorno della Targa. Come guidatore, aveva una naturale predisposizione per le vetture da corsa. Personaggi di prorompente vitalità erano Luigi Bordonaro e Anto­nio Pucci, destinati a diventare corridori assai popolari. Accanto a questi giovani c'erano i veterani, come il comandante Beppe Albanese e il conte Giovanni Federico; erano fra i «delfini» di Florio, cresciuti con lui alla scuola degli organizzatori. Giovanni Federico, in seguito, diventò un apprezzato Direttore di Corsa.
Altri, gentlemen e autentici sportivi, si sarebbero uniti a quelli cita­ti. Essi formarono una compagine compatta con molti punti in co­mune a quella dei primi anni della Targa pioneristica. Perciò pote­vano definirsi dei «neo-carbonari» in grado di ereditare le caratteri­stiche di chi li aveva preceduti. Tutti costoro erano concordi che una grande competizione automobilistica potesse dar lustro alla re­gione. Una sera, in casa Florio, Lanza di Trabia e La Motta discussero con Il Cavaliere sull'eventuale ripresa della Targa. Era presente anche Donna Lucia: stava in silenzio ad ascoltare il nipote Raimondo che aveva preso la parola infervorandosi; ogni tanto dava un'occhiata d'incoraggiamento al marito che appariva scettico e perplesso. In­fatti, alla fine della conversazione, Il Cavaliere obiettò: «Picciotti miei, mettetevi in testa che con Cerda è un problema. I proprietari dei terreni e degli impianti non lo permetterebbero mai. E poi è tutto distrutto...»

Nelle sue parole c'era tanta amarezza. Il Cavaliere non aveva torto. Durante la guerra, alle tribune di Cerda e nel circondario, avevano bivaccato reparti militari, prima tedeschi e poi americani. La vec­chia torre, tanto cara al Cavaliere, era stata fatta saltare con la di­namite. Degli impianti non restavano, ormai, che malinconiche ro­vine. Era proprio tutto da rifare. A parte le innumerevoli difficoltà di proprietà terriera e burocratiche. Perciò, l'idea del ritorno della Targa alle Madonie appariva irrealizzabile. Ma Raimondo non si arrese, e tanto meno Stefano. Qualche giorno dopo la conversazione con lo zio, il nipote pensò ad altre soluzioni per la vecchia Targa. D'un tratto, gli venne in mente che la zio, nel 1912, aveva organizzato il Giro di Sicilia con lo scopo di stimolare l'attenzione delle autorità sulla necessità di costruire strade per la locomozione a motore. E infatti il Giro di Sicilia ebbe in palio per tre anni, sino al 1914, la Targa Florio. Poi venne la guerra e tutto fi­nì. Il Giro di Sicilia riprese nel 1928 e continuò sino al 1931, ma sen­za la Targa Florio in palio che si disputava come corsa a sé stante. Allora, pensò che il rilancio del Giro di Sicilia con la Targa in palio poteva essere l'idea buona che stava cercando. Era anche l'occasio­ne per il riammodernamento delle strade dopo la guerra. In quel periodo era sorto da poco il Governo Autonomo della Re­gione Siciliana, presieduto dall'On. Alessi. Naturalmente, fra i compiti di tale Governo c'era proprio quello di badare alla ristrut­turazione delle strade. Una corsa come il Giro di Sicilia Targa Flo­rio sarebbe stata molto utile. Bisognava farlo comprendere alle au­torità. Lanza di Trabia e La Motta prepararono un progetto di mas­sima e si recarono in casa Florio. Ne parlarono con Il Cavaliere. «L'idea mi sembra buona!» disse Il Cavaliere, «Perciò, vi concedo di mettere in palio la mia vecchia Targa.»

Avuto l'assenso dello zio, Raimondo pensò che fosse giunto il mo­mento per un incontro con l'On. Alessi. E lui, assieme allo zio e a Stefano, conferirono con il Presidente della Regione nel suo studio. Il Presidente ascoltò il vulcanico Raimondo e poi anche Stefano. Rivoltosi al Cavaliere, di cui aveva stima incondizionata, gli disse: «Lei cosa ne pensa?» «Che si può fare!» disse Il Cavaliere senza battere ciglio.«Sta bene!» fece l'On. Alessi. «Alla prossima convocazione del­l'Assemblea si discuterà sul progetto Giro di Sicilia Targa Florio». E, qualche tempo dopo quella riunione, superate le difficoltà buro­cratiche, il progetto Giro-Targa venne approvato. La notizia venne accolta con entusiasmo dagli sportivi siciliani. Lanza di Trabia e La Motta convocarono gli altri gentlemen del gruppo e discussero sulla necessità di costituire un Comitato Organizzatore. Nel corso di una riunione, così, nacque il C.S.M.S. (Comitato Sportivo Motoristico Siciliano), al quale era demandato il compito di organizzare la cor­sa. La sede era in uno dei locali del Teatro Politeama. La competi­zione venne iscritta in calendario per i giorni 3-4 aprile 1948. Il per­corso di gara era praticamente lo stesso del 1931 sulla distanza di 1088 chilometri, iniziava da Palermo, piazza Politeama, attraversa­va le località di Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Gela, Si­racusa, Catania, Messina e arrivava a Palermo sul viale del Foro Italico. Un circuito massacrante, ma veramente utile allo scopo.

1951 ... Ritorno alle Madonie

Bracco faceva fatica a dominare la sua Ferrari. Ma non se ne preoc­cupava troppo e la sua azione era spregiudicata. Gli organi essen­ziali della vettura e le gomme risentivano dell'enorme logorio. Fu così che gli si squilibrò una ruota e, dopo un cambio di fortuna, raggiunse il box con la macchina che non rendeva più come prima. Era nervoso perché non poteva più lottare con i primi. Allora, quando vide al box Raffaelli inoperoso perché aveva rotto la sua Ferrari, gli disse: «Ti cedo la mia macchina ! Io monto su quella di Cornacchia non appena arriva.» E così fu. Arrivò Cornacchia, ne discese e Bracco prese il suo po­sto. Il biellese tornava a competere con i primi. Raffaelli, invece, cambiate le gomme alla Ferrari 4100, ripartiva con quella. Intanto, Stagnoli era passato in testa seguito da Cortese che lo pre­meva. Avvertito dalle segnalazioni forzò il ritmo, ma lo sforzo gli costò caro: la Ferrari si bloccò per rottura del semiasse. Cortese co­sì passava in testa. Si fermò al box, cambiò le gomme e ripartì senza strafare. A quel momento la Ferrari 2360 di Bracco era staccata da lui di ben 13'S6". L'impresa del biellese per acciuffare Cortese ap­pariva davvero disperata. E questo anche perché la Frazer Nash era guidata con perfetta maestria, acuto senso del risparmio e astuzia tattica. La corsa era ormai incentrata sull'appassionante duello Cortese­ Bracco. Per la verità, dove poteva, e cioè sul rettifilo del Buonfor­nello, Bracco sfruttava la maggior potenza del motore Ferrari su quello della Frazer Nash. Così, giro su giro, egli si andava avvici­nando sempre più al suo avversario. La folla si esaltava. Sembrava proprio di essere tornati ai tempi di Varzi e Nuvolari. In verità, sino ad allora, Cortese aveva fatto il Varzi risparmiando la sua macchi­na. Ma quando a un giro dalla fine gli segnalarono che Bracco era ormai a tre minuti da lui, si rese conto che si giocava la vittoria.
In quell'ultimo giro il suo avversario gli avrebbe potuto annullare il vantaggio. Allora, cessò di fare il risparmiatore e dette fondo al massimo alla macchina. Se lo poteva permettere, perché essa, non avendo mai raggiunto il limite d'usura, era meno logora di quella del suo antagonista. Così, tratto dopo tratto, Cortese riuscì a man­tenere inalterato il distacco di tre minuti. Sul Buonfornello dette il massimo. Quando arrivò alle tre curvette che immettevano sulla sa­litella del traguardo, si rese conto, dagli applausi del pubblico, che aveva vinto la corsa e che il suo rivale era rimasto lontano. Tagliò il traguardo, mentre Il Cavaliere sventolava la bandiera a scacchi con l'agilità di un Direttore di Corsa di Indianapolis. Poco più tardi, Cortese venne portato in trionfo con la corona al collo. Il Cavaliere, stringendogli la mano e complimentandosi con lui, gli disse: «Ha visto che avevo ragione io? Ha vinto la Targa e un bel premio in denaro. Ma se il denaro lo spenderà, la Targa, invece, le reste­rà ! »

Cortese lo guardò raggiante di felicità. «Sì, Commendatore, aveva proprio ragione lei! E questa Targa vale più del denaro che si vince... E, inoltre, se qualcuno mi incontrerà per la strada dirà: ecco uno che ha vinto la Targa Florio! Eh?...» e rise di cuore. Così come lui, Il Cavaliere e quelli che gli stavano in­torno. Per la prima volta nella storia della Targa, una vettura britannica era la vincitrice. Gli inglesi ne furono soddisfatti. E persino un turi­sta britannico, venuto per l'occasione ad assistere alla corsa, av­vicinandosi a Cortese, con fare da gentleman, gli disse:

«Thank You, Mister Cortese! L'Inghilterra tutta vi ringrazia...»

1951 .... Ritorno alle Madonie

La data di svolgimento della XXXV Targa venne fissata per il 9 set­tembre. Il lavoro preparatorio ferveva intensamente. Nel mese di agosto Il Cavaliere si recò a Enna per assistere al Premio Pergusa sul «circuito della cravatta» di 13,200 chilometri. Lo scopo era quel­lo di avvicinare dirigenti di scuderie e piloti per averli alla sua corsa. Al Premio Pergusa erano presenti ventitré partenti. Fra gli altri c'e­rano Franco Cortese con la Frazer Nash 2000 che divideva con Gio­vannino Lurani, Emilio Romano con la Ferrari 2000, Antonio Sta­gnoli con un'altra Ferrari 2000, Sergio Sighinolfi e Peppino Rossi con le Stanguellini 1100 Sport. Quando seppero che Vincenzo Flo­rio li voleva alla sua corsa senza una lira d'ingaggio si ribellarono. Si riunirono fra loro e delegarono Franco Cortese a rappresentarli per le rimostranze al «patron» delle Madonie. A tal proposito, stilaro­no una petizione controfirmata da parecchi di loro. Il Cavaliere non si perse d'animo per questa presa di posizione e s'incontrò con Cortese in colloquio privato. «Perciò, lei non vorrebbe correre la mia Targa se non riceve prima un ingaggio? E così anche gli altri?» chiese Il Cavaliere severo. «E allora, che ci venne a fare alla Favorita nel trentanove e nel quaran­ta senza prendere soldi?»

«Ma quelli erano altri tempi, Commendatore!...» obiettò Cortese abbassando gli occhi. «Ah!... Già, ecco!... Altri tempi!... Quando uno non sa che dire ri­corre sempre agli altri tempi. È la solita storia!...» scattò Il Cavalie­re, mentre Cortese fissava la punta delle scarpe senza alzare lo sguardo. «Lasci stare gli altri tempi Cortese e venga a correre alle Madonie. Lei non c'è mai stato, e si vede... Là si respira aria buona. Posso rassicurarla! E poi, lei è un buon pilota e ha anche una bella mac­china. E, sono convinto, lei vincerà! Il premio in denaro è più che soddisfacente. E poi, c'è l'altro premio: quello d'avere vinto la Tar­ga! È come essere stato re una volta e neppure accorgersene. E poi, quando incontrerà la gente, si sentirà dire: ecco là uno che ha vinto la Targa Florio! Non le basta?»

A quel punto, Cortese smise di fissarsi la punta delle scarpe, alzò gli occhi e disse a Florio: «Commendatore, verrò alla sua corsa senza una lira d'ingaggio. Spero che gli altri seguano il mio esempio... » Il Cavaliere, sorridendo, lo ringraziò dicendogli: «Eh!... Lo sapevo che lei non avrebbe mai rinunciato a... vincere la mia Targa!...» Dopo il colloquio con Il Cavaliere, Cortese parlò con i suoi colleghi e disse loro:

«Forse, quell'uomo è uno stregone. Però merita la massima consi­derazione proprio perché sta facendo di tutto per far rinascere la sua corsa, una bella corsa. Non mi sento di tradirlo per i soldi, e credo e spero, neanche voi...» I colleghi lo ascoltarono in silenzio e, più tardi, diversi di loro ne se­guirono l'esempio: s'iscrìssero alla Targa senza soldì d'ìngaggìo. II Cavaliere aveva vinto la sua partita.

Don Vincenzo Florio

Scrivere di Don Vincenzo Florio senza rimanere intrappolati nei luoghi comuni è molto difficile. Ci provo, anche se in modo tutt'altro che esaustivo, un uomo troppo grande per i miei modesti mezzi. Soprattutto, però, sono impacciato da un senso di rispetto e ammirazione che parzialmente mi paralizzano da quando l'ho conosciuto. Ho un fortissimo legame con lui, credo reciproco.

La celebre considerazione "se si dovesse ripercorrere la storia della Targa, si dovrebbero scrivere molte pagine dense di episodi, di contrasti, di ansie, di trionfali successi, tali da riempire un grosso volume. Forse un tale lavoro sarà fatto da qualche storico appassionato, vendemmiando anche tra i miei ricordi e nella mia memoria" sono certo sia stata scritta per me. E dire che odio la presunzione! Ma resto convinto. Troppe casualità per non essere reali: pagine dense, ansie e contrasti, grosso volume (520 pagine), tale lavoro, nei ricordi e nella memoria. No, decisamente troppi gli accostamenti con 'a Cursa, l'unico romanzo scritto finora nel quale la sua premonizione si è avverata e nel quale lui vive nel solo ruolo che gli compete: protagonista. Qualcosa di soprannaturale ci unisce, evidentemente. Avevo otto anni quando morì a Epernay, in Francia. Eppure era già stato scritto che avrebbe inciso nella mia vita come pochi. L'ho idealmente incontrato quando ne avevo quattordici, nel 1964. Un carissimo zio, invece, lo aveva conosciuto veramente, fin dagli anni '20. Appassionato di automobilismo sportivo, aveva seguito la Targa fin dalle prime edizioni. E voleva, ad ogni costo, farla conoscere anche a me.

Aspettò tre anni, ero allievo del celeberrimo collegio Pennisi di Acireale durante le medie, e una radiosa mattina del maggio 1965 – già liberato dalla prigionia - venne a trovarmi. Uomo deciso e imprenditore agricolo di ottocentesco stampo, non ammetteva tentennamenti e men che meno dinieghi. "Domenica sarai con me alla Targa Florio". Non replicai, soprattutto perché gli volevo molto bene. Tuttavia, proprio per il giorno festivo avevo programmato una partita di calcio e l'idea di un viaggio a Palermo non mi entusiasmò per nulla. Invece, quel 9 maggio fu una folgorazione. Pur intontito, inebriato ed eccitato dal turbinio di suoni, odori, passione e colori, capii subito che l'ideatore di quel grandioso evento doveva essere un personaggio straordinario. E, irresistibilmente attratto, iniziai a documentarmi. Sono passati 47 anni, stima e gratitudine verso 'u Cavaliruzzu, così chiamato affettuosamente dai vecchi palermitani, continuano ad albergare con maggior vigore nel mio animo. Chi è Don Vincenzo Florio? È, non era, certi uomini non muoiono mai. Il più fedele figlio della sua epoca. Colui che ha saputo, infinitamente più di altri, interpretare e fare sue le istanze e le speranze della nuova era, all'alba del ventesimo secolo. Velocità, voglia di cambiamento e modernità: questi gli elementi principali della sua esistenza. Senza, nel contempo, dimenticare tradizioni e fierezza di una terra millenaria, ha dedicato ogni energia per donare alla sua vita e alla sua Sicilia nuove e migliori identità. Gentiluomo di altissimo spessore, ironico, colto, amante e discepolo dell'Arte, creativo, irrequieto, tenace, pilota coraggioso. Solo con tali caratteristiche poteva essere creata la più affascinante corsa automobilistica del mondo. E l'ha creata. Indifferente al disastro economico della sua ricchissima famiglia, alle immense difficoltà tecniche ed organizzative, ai disastri naturali, alla malattia, alla vecchiaia e perfino alla morte.

La Targa, infatti, è sopravvissuta alla scomparsa del suo corpo, è viva come non mai nel cuore e nei ricordi di chi ha avuto il piacere e il privilegio di seguirla e viverla, come spettatore o come pilota non ha importanza alcuna.

Sì, Vincenzo Florio non è mai morto, morti sono e sono sempre stati coloro che lo hanno osteggiato e che, del tutto incapaci, non sono riusciti e non riescono nemmeno lontanamente ad emularlo. Vincenzo Florio ha amato la Sicilia e i Siciliani come e più dei figli che non ha avuto. Ha donato, mai preso. Un esempio mirabile che travalica le realizzazioni nel settore sportivo e inonda tutti i campi dell'umano operare. Qualunque altra considerazione sul figlio migliore che la Trinacria abbia mai generato, sarebbe del tutto superflua e melliflua. Lui non vuole che si parli e scriva troppo intorno alla sua persona. Ed io sono ligio ai desiderata dell'uomo che pensava a me, nel mentre sperava che qualcuno tramandasse ai posteri l'anima della sua creatura prediletta. Un onore immeritato, sono consapevole, ma ho fatto il possibile per riuscire.

Si ringrazia il Professore Giuseppe Pitrone per la gentile concessione......

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Writing of Don Vincenzo Florio without remaining trapped in the stereotypes it is very difficult.
Moreover I am awkward because of the respect and admiration I feel since I have known him. I have a strong relationship with him, and I think it is mutual. "If someone had to chronicle the Targa Florio story, he should write pages full of episodes, contrasts, anxieties, successes, such as to complete a big volume.

Maybe this work should be done by a history lover, wandering among my memories", I think that this famous consideration was written for me. And I hate arrogance! But I am convinced. There are too many coincidences to be not real: pages full of episodes, anxieties and contrasts, big volume(520 pages), a work in memories. I was 8 years old when he died in Epernay, France. Nevertheless it was already written that he would have engraved my life as few people. 47 years have passed, esteem and gratitude for 'u Cavaliruzzu, the nickname that aged people from Palermo gave him, remain in me with more vigour. Who was Don Vincenzo Florio? He is, not was, some men are immortal. The most loyal son of his time. Whom he was able, much more than others, to interpret the requests and desires of the new age, at dawn of the twentieth century. Speed, will to change and modernity: these are the principal elements of his life. Without, at the same time, forgetting the traditions and pride of a thousand-year-old ground; he devoted every energy to give to his life and his Sicily new and better identities. Gentleman of depth, ironic, well-educated, Art lover, creative, unquiet, tenacious, brave pilot. The most fascinating car race of the world could be created only with these characteristics. He created it. Uninterested on the economic crisis of his very rich family, the enormous technical and organizational difficulties, the environmental disaster, the illness and event the death.

The Targa lived on his passing, it is alive in the memories of whom had the pleasure and privilege to participate, as public or pilots, does not matter.

Vincenzo Florio has never died, he loved Sicily and Sicilians as and more than the children he never had. He gave, never took. An admirable example that exceed the achievements in the sport sector ahd it fill every field of the human operate. Any other consideration on the youngest child, made by Sicily, is needless and soapy. He does not want people talk and write too much of him. I am faithful to desires of the man who thought of me, and at the same time he hoped that someone would hand down to posterity the soul of his favourite being. An undeserved honour, I am aware, but I have done all I could to manage.

1951 .... Gli ingaggi ai piloti

«Bene! Però, c'è un altro problema: gli ingaggi ai piloti. Oggi, per venire a correre, i piloti vogliono soldi!» fece Marasà scuotendo il capo.

«Niente affatto ! Io dimostrerò che alla Targa Florio si partecipa senza ingaggi. Per debellare questo malcostume metterò in palio premi in denaro secondo "uso antico". I milioni spettano ai vincito­ri, non a quelli che devono ancora correre. Vedrà, i veri piloti ver­ranno a correre alla mia Targa!» fece il Cavaliere accalorandosi. «Commendatore, lei mi ha proprio convinto. Sono a sua disposizio­ne. Però, si ricordi che non sono affatto pratico di queste faccen­de...» disse Marasà perplesso.

«Imparerà! Vedrà che imparerà!...» lo incoraggiò il Cavaliere bat­tendogli una mano sulla spalla.

Fu così che l'avvocato Giovanni Marasà assunse il ruolo di Diretto­re Generale dell'organizzazione. Corrado Dirkes, il tenace tedesco, fu nominato Ispettore d'organizzazione e Vincenzo Gargotta rico­prì l'incarico all'Ufficio Stampa, come ai vecchi tempi. Direttore di Corsa era lo stesso Vincenzo Florio. James Tagliavia, invece, si era assunto il compito di Commissario Sportivo assieme a Giovanni Ca­nestrini, al principe Girolamo Vannucci di Petrulla e al conte Giu­seppe Lanza di Mazzarino.La sede del Comitato Organizzatore era in via Principe di Belmon­te 33, cioè nella stessa casa di Vincenzo Florio, quella il cui angolo s'affacciava nella piazza Ignazio Florio a Palermo. Due stanze del­l'abitazione erano riservate all'organizzazione. Donna Lucia Florio aveva accettato di buon grado la cosa e non dava segni d'insofferen­za per «l'invasione» da parte dei fidi collaboratori del marito. D'al­tra parte, questi erano tutte persone molto discrete.

1951 .... E bravo James Tagliavia !

E bravo James Tagliavia ! Sei stato grande e sono fiero di te ! Non prendermi in giro disse James ! …. stravolto dalla fatica. L'amicizia fra i due si era consolidata con il tempo. Ed e' proprio a lui che il cavaliere espose il suo progetto di ritorno della Targa alle Madonie. James si mise subito a disposizione per costituire un ente che servisse a dare una sistemazione giuridica alla nuova Targa. Co­sì, fra lui e Il Cavaliere, nacque una Società che si sarebbe chiamata S.I.A.S.T.S e cioè: Società Incremento Attività Sportive Turistiche Siciliane. C'era qualche cosa del vecchio Comitato Panormitan, ma, ora, i soci erano soltanto due. La SIASTS si assunse subito l'0­nere del riscatto dei terreni relativi alla zona delle vecchie tribune di Cerda. Le trattatìve con il proprietarìo non furono facili e anda­rono per le lunghe. In seguito, però, grazie all'opera di convinci­mento del Cavaliere e all'intervento diretto di Tagliavia, esse furo­no coronate dal successo. La cara «Floriopoli» poteva risorgere più nuova e incantevole che mai. Il Cavaliere pensò a costituire il Comitato Organizzatore con pochi e validi collaboratori. Richiamò a sé alcuni veterani del passato co­me il tedesco Corrado Dirkes, Vittorio Marsala e il giornalista Vin­cenzo Gargotta. A dirigere l'organizzazione, Il Cavaliere aveva pensato a una persona nuova dell'ambiente sportivo con le idee chiare. Era questi l'avvocato Giovanni Marasà che aveva dato pro­va di spiccate attitudini dirigenziali anche in altri settori.

Il Cavaliere ebbe occasione d'incontrarlo nell'aprile 1951. Gli disse: «Lo sa che ho intenzione di riportare la Targa alle Madonie?» «Mi sembra un programma molto ardito! Oggi la gente preferisce le corse su pista, oppure quelle in città...» obiettò Marasà. «Ed io, invece, dimostrerò che ci vogliono le corse su strada! Le au­tomobili si costruiscono per percorrere le strade. Più accidentate sono, meglio è per le automobìlì» replicò II Cavaliere. «Sì, ma occorrerebbe far venire il pubblico di mattina presto. Ed esso non è più quello di una volta» obiettò ancora Marasà. «Se è soltanto per questo farò prendere il via alla corsa alle dieci del mattino. Le basta?» disse Il Cavaliere convincente. «E con gli impianti di Cerda, le tribune, e tutto il resto?...» chiese Marasà. Non si preoccupi, ho già sistemato tutto!» replicò Il Cavaliere

Il .. pilota ...... mascherato

Ricordo ancora un concorrente che volle iscriversi con uno pseudonimo (ottenne per ciò la necessaria autorizzazione della A.C.I. ) . Un gran segreto era il suo nome, un mistero pro­fondo. La madre non doveva sospettare che il figlio correva, così diceva il corridore. Ma qualcuno mi assicurò che era orfano, alla par­tenza un enorme paio di occhiali Merioviz na­scondevano la sua faccia. A Catania aveva amici che potevano riconoscerlo e questo non doveva essere se non la mamma... Senonchè poche ore dopo la partenza un ufficiale giudiziario si pre­sentò alla sede del Comitato Panormitano per­chè doveva sequestrare la macchina. Io non volli tradire un segreto che potevo anche con­siderare d'ufficio e telegrafai ad Agrigento da dove l'X passò in gran ritardo.

Avvertito del pericolo, voltò strada, passò lo stretto e proseguì per Milano. Ed io rimasi alle prese con l'ufficiale giudiziario il quale con insistenza degna di miglior causa voleva per forza sapere dove era andato a finire l'uomo misterioso.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

Il pilota ..... Francese

Ricordo un concorrente francese il quale a San Nicola travolse un bambino credendo di averlo ucciso, si fermò poco dopo, comprò colori e pennelli, fece scomparire il proprio numero dal cofano e dal radiatore e proseguì per lo stretto che traversò insalutato ospite. Dopo un mese da Parigi si fece vivo ed avendolo io assicurato sulla sorte del bambino che fortunatamente era guarito rispose ringra­ziando per la notizia, inviando una somma.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959)

Quel .... corridore lombardo ....

Un corridore lombardo alla partenza è cir­condato da un gruppetto di amici che non l'han­no mai lasciato solo e che nei momenti che precedono il << via lo incitano, lo incoraggiano e stanno a guardarlo come si guarda una inna­morata.>>

Lo abbiamo saputo poi: era un gruppo di creditori ai quali il corridore aveva assicurato di essere un gran guidatore assolutamente sicuro di vincere la corsa e perciò di pagarli.E quei crudeli disgraziati lo avevano finanziato di tutto punto, benzina, gomme (ne occorrevano allora per lo meno sei di scorta),viaggi, albergo, vitto. Per partire, partì, ma si limitò ad arrivare a Messina, tagliò la corda, passò lo stretto ed i creditori rimasero ad aspettarlo a Palermo.

Vincenzo Florio
(Palermo, 18 marzo 1883 – Epernay, 6 gennaio 1959

L'ultima Targa del Cavaliere

Vale rilevare che Vincenzo Florio e Giovanni Canestrini si conosce­vano sin dal 1927, anno in cui, per la prima volta, inviato da «La Gazzetta dello Sport», quest'ultimo venne in Sicilia a svolgere il servizio sulla Targa per il suo giornale. Era il primo di Canestrini in Sicilia. Proprio in quel periodo, da poco, si era svolta la Mille Mi­glia da lui ideata assieme a Renzo Castagneto, Franco Mazzotti e il conte Aymo Maggi.
Quando fu in Sicilia quell'anno, Canestrini re­stò impressionato dalla Targa e dal suo panorama. Ma ciò che più gli fece effetto fu il temperamento del Cavaliere, che in Francia chiamavano rispettosamente il Grand Monsieur. I due s'intesero subito e, con il trascorrere degli anni, fra loro si rinsaldò una since­ra amicizia. Vincenzo Florio aveva grande stima di Canestrini, un giornalista dallo stile inconfondibile nel commentare competizioni automobilistiche. Di contro Canestrini, così come era accaduto per Charles Faroux, aveva ammirazione per quell'uomo che non s'ar­rendeva mai, anche se solo a combattere contro tutti.Ogni anno, Il Cavaliere inviava al suo amico Canestrini una bozza del Regolamento della Targa pregandolo di prenderne visione. Ca­nestrini lo faceva volentieri e gli sottolineava qualche suggerimen­to. Però, Vincenzo Florio non sempre ne faceva conto. E, allora, o per telefono, o quando s'incontravano a Milano, erano sempre po­lemiche e discussioni cordiali e simpatiche. Talvolta, però, Il Cava­liere accettava i suggerimenti, ma a denti stretti. «Non riesco a capire, Giovanni, perché si debbano complicare le cose facili. Quella della Targa è una formula semplice...» Non gli andavano le complicazioni dei regolamenti internazionali, come per esempio quella dell'arresto della corsa dopo l'arrivo del vincitore; oppure che un pilota non potesse compiere più di sette gi­ri consecutivi. Quando nel 1957 Il Cavaliere apprese della morte di Charles Fa­roux, il vecchio amico di «L'Auto», ne provò un grande dolore. Te­lefonò a Milano a Canestrini e gli disse: «Caro Giovanni, un altro della nostra famiglia se n'è andato... La famiglia della Targa non è più numerosa come prima. Mi sembra difficile che se ne possa fare un'altra...» Quel 15 maggio, giorno dei suoi festeggiamenti, Vincenzo Florio e Giovanni Canestrini furono a pranzo assieme ad autorità, sportivi e giornalisti nei locali della Famiglia Meneghina. Le battute di spirito fra i due non mancarono. Canestrini ben conosceva quanto Florio fosse buongustaio e che, a tempo perso, si dilettava nell'arte gastro­nomica. Prese da ciò lo spunto per ricordargli di quella tal sua ricet­ta di fettuccine al sugo e pomodoro che inventò apposta per Meo Costantini, Achille Varzi, Ettore Bugatti e l'ingegnere Vittorio Ja­no in occasione di una Targa.

«Sì!» ammise Il Cavaliere, «Mi riuscì ottima anche se proprio non me l'aspettavo. C'erano insieme un pizzico di tonno all'olio e ara­gosta bollita e grattugiata sopra. Ricordo Bugatti che ne restò in­cantato al punto da affermare: "Credo che ora nei ristoranti andrà di moda la ricetta delle fettuccine alla Florio". Che simpatico Etto­re!» Dopo quella piacevole riunione conviviale, Il Cavaliere e i suoi accompagnatori ripartirono per Palermo. Qualche mese dopo, nel programma del Cavaliere c'era un viaggio in Francia, dove lui soleva andare spesso. L'amore per quella terra e, soprattutto, per la regione di Champagne era sempre vivo in lui. Fra l'altro, aveva anche in mente di visitare a ottobre il Salon de l'Automobile a Parigi. Mancava qualche settimana alla sua partenza e l'Autore di queste note ebbe modo d'incontrarlo per un servizio giornalistico sul futu­ro della Targa. «Fra qualche giorno vado in Francia. Sai, lì c'è un bel verde tran­quillo e riposante. Sono un po' stanco e ne ho bisogno. E poi, là rin­giovanisco con i miei vecchi ricordi. Mi rammento ancora quando Desgrange mi parlò con fervore del suo Tour de France ciclistico e io gli parlai della mia Targa. A un certo punto intervenne Faroux che disse: "Mettetevi d'accordo per una corsa ciclo-automobilistica e non se ne parli più". E ci mettemmo tutti a ridere... Ormai, loro non ci sono più. Il superstite resto io. Poi toccherà anche a me. Co­munque, a me interessa che continui la mia corsa...»

Nel mese di settembre quindi, in compagnia di sua moglie Donna Lucia e del nipote Vincenzo Paladino, s'imbarcò sul piroscafo in partenza da Palermo. A salutarlo al porto c'erano i suoi fidi colla­boratori.Trascorsero alcuni mesi. Finì il 1958 e cominciò il nuovo anno 1959, quando Il Cavaliere venne ricoverato in una clinica di Epernay. Il suo fortissimo cuore non ce la faceva più a reggere. Donna Lucia era afflitta e sconsolata. Il nipote Vincenzo, muto e pallido. Il Ca­valiere ebbe il presentimento della fine e pensò subito alla sua ama­ta Targa. Ripercorse il passato e ebbe paura dell'avvenire. Ricordò i giorni felici e quelli tristi. Le ansie e le gioie. Le vittorie e le scon­fitte. I contrasti e le costrizioni. L'opulenza e il decadimento. Il benessere e l'umiliazione. L'ammirazione e l'ingratitudine. La genui­na spontaneità dei semplici, la viscida ipocrisia dei mediocri.
Ri­pensò al panorama festoso della sua «Floriopoli» e forse alla pallida fioraia di Nótre Dame che gli offrì il suo mazzolino di viole augurandogli buona fortuna. E fortuna era stata per la sua Targa. Ma ora che lui, a settantasette anni, stava per dare addio alla vita e al mondo, la fortuna avrebbe ancora sorretto la sua Targa? Si volse verso suo nipote Vincenzo che era al suo capezzale assieme a Don­na Lucia. Lo guardò negli occhi per l'ultima volta e gli sussurrò: «Vincenzo,... la Targa non deve morire con me... La Targa deve continuare... E tu devi farla continuare!... Lascio a te quest'incari­co... Promettimi che lo manterrai... Promettimi!...»E Vincenzo lo promise. Negli occhi del nonno brillò una luce di speranza. Poi essi si spense­ro. Ma la luce rimase. Il volto del vecchio pioniere divenne sereno nella fissità della morte. Il giorno in cui Il Cavaliere ci lasciò pei sempre era il 6 gennaio del 1959.La notizia della scomparsa del Grand Monsieur si diffuse per il mondo e fece grande effetto in Francia e in Inghilterra. Soprattutto in Francia. Là era nata l'idea della più antica corsa del mondo. Il caso aveva voluto che proprio là dovesse finire i suoi giorni colui che l'aveva elaborata.

Florio visse nel suo tempo per creare una leggenda che non è mai morta.

1999 - a oggi

— LA NOSTRA STORIA —

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